Il marketing è una miniera di opzioni e di possibilità. Questo è il suo lato affascinante ed è ciò che ci stimola quotidianamente: mettere alla prova la nostra creatività, produrre nuove idee e perseguirle con passione.
Il risvolto problematico di tutto questo, tuttavia, è che la nostra natura umana desidera certezze, punti fermi, sicurezze e così talvolta finiamo per innamorarci un po’ troppo delle nostre idee, le trasformiamo in convinzioni e verità rivelate, anche se non abbiamo sufficienti dati per sostenerle. Per dirla in modo chiaro, talvolta siamo tentati di prendere un singolo caso e assumerlo a modello universale e regola di condotta. Ad esempio aggrappandoci a un pagina web che “funziona” e decidendo che quello è il modo in cui devono essere fatte tutte le altre.
Del resto, non è del tutto colpa nostra se ci fissiamo in questo modo. Il marketing digitale, forse più di ogni altra disciplina, è pieno di articoli e di blog post dedicati alle best practices. Ci avete fatto caso?
Al cuore di questi post c’è spesso una checklist costruita distillando un paesaggio complesso fino a trasformarlo in un elenco di “questo si fa” e “questo non si fa”. A volte ci caschiamo anche noi, ci illudiamo di aver trovato la formula magica del successo. In fondo è un’idea tremendamente allettante: la best practice ci fa pensare all’esistenza di un percorso netto verso il risultato, alla ricetta per disegnare il sito web, l’headline o l’annuncio perfetti, a progetti privi di problemi e ad utenti felici.
Un esempio tipico è quello delle Landing page. Spessissimo abbiamo letto o sentito dire che:
- I bottoni verdi funzionano meglio
- I bottoni rossi funzionano meglio
- I bottoni arancione funzionano meglio
- È buona cosa inserire sempre un volto sorridente
- Non bisogna mai mettere delle persone
- Bisogna minimizzare i click alla conversione
- Bisogna usare un copy lungo
- Bisogna ridurre al minimo la lunghezza del copy.
Chi ha ragione? Al solito, la risposta giusta è “dipende”.
Ad esempio, ne abbiamo parlato a proposito del rifacimento o restyling di un sito web, suggerendo quelle che riteniamo le domande preliminari da porsi prima di prendere alcuna decisione.
Il punto è che le best practices non sempre sono la best practice. La loro validità dipende in modo drammatico dal contesto nel quale si applicano. E dal momento che il contesto è qualcosa di sottile e talora impalpabile, dobbiamo rispondere “bisogna testare”.
“Nel web non si finisce mai di testare”
In sintesi, le best practices ci possono ispirare per produrre nuove idee o nuovi prodotti, ma ciò che produciamo dev’essere testato nel suo contesto.
Testare è l’unico modo che abbiamo a disposizione per fare modifiche ad un sito web ed essere abbastanza fiduciosi di ottenere dei risultati migliori, anziché peggiori.
In fondo, il requisito minimo affinché una best practice si possa definire tale è duplice:
1. dev’essere in modo dimostrabile migliore delle altre prassi alternative. Una pratica, cioè, dev’essere stata testata in concorrenza con delle alternative, e deve aver dimostrato di produrre qualche risultato misurabilmente superiore;
2. dev’essere effettivamente praticata da un certo insieme di persone.
Molte delle cosiddette best practices non soddisfano nessuno di questi requisiti.
Le buone pratiche dunque fanno la loro comparsa quando ciò che facciamo è coerente con il nostro contesto, quando siamo consapevoli di ciò che si muove attorno a noi e vi rispondiamo in modo appropriato.
Le best practices, il gregge e la forza dell’ippopotamo
Molte delle best practices che ci vengono sbandierate, invece, sono soprattutto un’espressione passe-partout, uno strumento di vendita, un modo grazie al quale qualche gruppo che si è auto proclamato di “esperti” si è creato del lavoro. Ma perché ci caschiamo? Perché paghiamo per certificazioni, corsi, libri che ci promettono di insegnarci le best practices?
Un po’ per pigrizia, perché l’idea del piatto già cucinato è sempre una tentazione, un po’ per quel bisogno di certezze e di punti saldi di cui si parlava all’inizio. Ma anche perché, dopo tutto, l’idea di far parte di un gruppo (o di un gregge) non è che ci faccia così tanto ribrezzo… Il mondo si sta facendo sempre più incerto, rischioso e mutevole, non abbiamo alcuna certezza di successo. Abbiamo bisogno di proteggerci: appartenere a un gregge risponde ad un bisogno di sicurezza e seguire il gregge è un comprovato meccanismo di protezione. Gli animali fanno gruppo in grandi greggi perché il numero rassicura: forse il gruppo può mettere in fuga i predatori, li può confondere, può rendere più difficile aggredire un singolo animale. Il gregge fornisce anche un bersaglio: stando in gregge posso sempre sperare che il predatore prenderà qualcun altro al posto mio.
E i predatori contro cui ci stiamo difendendo chi sono? L’elenco è nutrito: i nostri capi; i senior executives; se siamo in un’agenzia o forniamo consulenza, sono i nostri clienti…
Non importa quanto male facciamo: se possiamo suggerire che migliaia di altri professionisti avrebbero fatto lo stesso nella nostra situazione, allora siamo al sicuro. Nessuno ci può rimproverare per l’errore. Siamo solo stati sfortunati.
Naturalmente, non possiamo ammettere di aver usato la pratica del gregge. Non è questo ciò che i predatori vogliono sentirsi dire. Così la rincorniciamo come “best practice”. Ma questo non perché è dimostrabilmente migliore di qualcos’altro. Solo perché non sappiamo cosa davvero in realtà funzioni.
Come sostiene Chris Goward, autore del celebre libro “You Should Test It”, nel mondo reale del business la maggior parte delle decisioni sui siti web sono prese da sedicenti esperti in base al loro naso (“a botta e manazza”, diceva elegantemente un mio ex collega).
A proposito del processo di decisione riguardo ai siti web, Goward ha messo ben in luce il ruolo chiave giocato da quello che lui chiama l’ “HiPPO in the room” dove HiPPO sta per “HIghest Paid Person’s Opinion” (l’opinione della persona più pagata). Ne sapete qualcosa anche voi?